Al campo - 1

 

Alberto era fermo sotto l'arco metallico. Spossato, senza la volontà di fare un passo in avanti ma senza la forza di farne uno indietro. Svuotato era il termine esatto: si sentiva come se gli avessero estratto le viscere dal naso, come gli egizi, e ora era solo un involucro. Dal naso gli avevano anche estratto i desideri, la voglia, la dignità, la speranza.

Non sapeva perché lo sapeva, ma sapeva di sentirsi come i deportati nel campo di concentramento, quando erano oramai annientati nel fisico e, anche di più, nello spirito. Sapeva che anche loro si sentivano unicamente come dei fragili contenitori, ma vuoti, tanto vuoti da non ricordarsi più se c'era stato un tempo lontano in cui quel contenitore era pieno.

I suoi genitori gli parlavano, non sapeva cosa gli stavano dicendo, e lui rispondeva, e non sapeva che cosa stava rispondendo. Poi venne spinto da un braccio sulla schiena, incredibilmente le gambe che sentiva così stanche gli permisero di camminare, non cadde, come aveva temuto. Si incamminò nel vialetto di ghiaia: era bianca, candida, quasi soffice, ma non era così, prima. Erano pietre, non ghiaia, scure, metalliche, sporche e unte, e taglienti, come delle selci. E c'era l'erba ora ai lati del viale, verde accanto al bianco, ma Alberto sovrapponeva alla vista attuale un'immagine cupa: il cielo color piombo, la terra nera, la schiena del suo compagno davanti grigia, le proprie scarpe, gli alberi, le baracche: sembrava che i colori fossero stati banditi dal mondo, che solo il nero avesse diritto di esistere e che stesse rapidamente conquistando il mondo.

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